Negli ultimi mesi la cronaca ci racconta che la gente si muove nei mercati alla ricerca dei prezzi più bassi o, come oggi si ama dire, alla ricerca di “prodotti low cost”. Fra i cattolici qualcuno si chiede: questo fenomeno può diventare un segno dei tempi, cioè un richiamo a uno stile di vita più sobrio? Cerchiamo di capire cosa sta avvenendo.
 Dal 2008, con la crisi, si è avuta una forte caduta dei consumi. Gli istituti di ricerca, soprattutto quelli legati al mondo del commercio, hanno subito colto con preoccupazione questa caduta; nel corso del 2009 altre conferme sono poi venute dai dati dell’Istat. Siamo agli ultimi mesi del 2010, la crisi ancora non è stata superata e per molti lavoratori licenziati o ancora in cassa integrazione sono arrivati i tempi peggiori. E non è certo consolante sapere che in altri Paesi europei, come dicono alcuni ministri, le cose starebbero peggio. Non è consolante perché uno studio recente ha chiarito che negli ultimi dieci anni il reale potere d’acquisto è diminuito di 5.453 euro per le famiglie di operai e impiegati, mentre è aumentato di 5.940 euro per imprenditori e liberi professionisti. Ecco perché nel nostro Paese, più che altrove, sono cresciute le disuguaglianze sociali e le famiglie dei lavoratori e del ceto medio si sono impoverite.
A fine ottobre, una ricerca Ipsos-Acri realizzata per la giornata del risparmio ha ribadito che la famiglia media italiana continua a tagliare le spese non indispensabili (bar, ristorante, cinema, teatro, libri, viaggi), salvando soltanto le spese per la casa e per il cellulare, mentre la maggioranza delle famiglie continua a ridurre i consumi e i più poveri acquistano beni (anche alimentari) non di marca e spesso di scarsa qualità. Non solo: secondo la stessa ricerca, una famiglia su 5 è direttamente colpita dalla crisi, una su 4 è costretta a indebitarsi per andare avanti o a mangiarsi il risparmio degli anni precedenti; solo una su 3 riesce ancora a risparmiare. Ancora una volta a stare peggio sono operai, impiegati, giovani con contratto a termine, immigrati e famiglie monoreddito o con più figli.
 Questo quadro strutturale, che va sempre tenuto presente quando si parla di questi temi, pone ancora una volta il problema non solo di una maggiore giustizia sociale, ma anche di una maggiore giustizia fiscale. In Italia, come si legge nel documento preparatorio per la settimana sociale svoltasi a Reggio Calabria, la pressione fiscale va riequilibrata spostandola dal lavoro e dagli investimenti alle rendite. La crisi attuale può e deve essere l’occasione per farlo.
 Non solo: per tornare alla domanda posta all’inizio di questa nota, la crisi può essere il “tempo opportuno” per rimettere in discussione l’attuale modello di sviluppo, tutto incentrato su un individualismo sfrenato e su una crescita continua e infinita dei consumi. L’aspirazione a migliorare le nostre condizioni di vita non può coincidere con l’avere sempre più “cose”. La cronaca, letta con discernimento, dovrebbe aprirci gli occhi: la competitività esasperata per raggiungere stili di vita basati sull’accumulo dei beni materiali si trasforma in disagio ulteriore, in nevrosi, in infelicità individuale e collettiva.
Dai comportamenti dei più poveri può venire per tutti una spinta a nuovi stili di vita. La crisi, allora, deve essere il tempo opportuno per assumerci la responsabilità di ripensare e ricostruire un futuro che abbia come criteri prioritari la giustizia, la salvaguardia del creato e la garanzia di un “lavoro decente” e di una “vita buona” per ciascuno e per tutti.

Articolo tratto dal settimanale Emmaus n° 41 del 6 novembre 2010