Nel settembre 2018, sulla base dei dati raccolti nel primo semestre dell’anno, è stato possibile fare una prima valutazione delle misure di contrasto alla povertà realizzate con il Reddito di Inclusione. A livello nazionale il sostegno economico è andato a 267.000 nuclei familiari, raggiungendo 841.000 persone; aggiungendovi i 44.000 beneficiari delle misure previste dal Sostegno per l’Inclusione Attiva (Sia), si contano 311.000 famiglie per un totale di oltre un milione di persone, pari a oltre un terzo del totale delle persone in povertà assoluta. Nelle Marche i benefici economici sono stati erogati a 2.951 nuclei familiari per un numero complessivo di 8.505 persone; a questi vanno aggiunti i 504 nuclei (cioè 2001 persone) che hanno beneficiato del Sia. In totale, quindi, gli interventi contro la povertà hanno raggiunto 3.455 famiglie e complessivamente 10.506 persone. Dal primo luglio per ottenere il ReI non è più necessario avere in famiglia almeno un minore, o un disabile, o una donna in gravidanza, o un disoccupato con più di 55 anni; è quindi prevedibile un notevole aumento dei beneficiati. Questo per quanto riguarda la corresponsione di sussidi economici. Più difficile fare una valutazione degli altri interventi previsti dal ReI, che puntavano a giungere a un progetto personalizzato di attivazione ed inclusione sociale e lavorativa per superare la condizione di povertà. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) approvato nell’ottobre 2018 ha messo in campo una nuova misura, il Reddito di cittadinanza. Il ReI è nato per dare risposte ai poveri assoluti, mentre il reddito di cittadinanza previsto dal Documento di Economia e Finanza è finalizzato anche ai poveri relativi. Sono differenti anche le soglie di accesso: mentre il ReI, essendo legato ai redditi calcolati secondo i parametri dell’Isee, aveva una platea di circa due milioni e mezzo di persone, il reddito di cittadinanza, essendo legato allo stato di disoccupazione e al rischio povertà, amplia di molto il numero degli aventi diritto, raggiungendo addirittura la quota di sei milioni e mezzo di persone. È chiaro che l’obiettivo di aiutare, oltre che i poveri assoluti, anche i poveri relativi è certamente non solo condivisibile, ma anche lodevole. Per raggiungerlo, però, l’ostacolo maggiore non è solo di tipo finanziario. È ovvio che la cifra stanziata nel DEF (9 miliardi) non è certo sufficiente per garantire 780 euro mensili a sei milioni e mezzo di poveri. Occorre quindi concedere il reddito non a tutti, ma a chi si trova in determinate condizioni, da stabilire. Come aveva già previsto la legge istitutiva del ReI, occorre poi realizzare il casellario sociale per evitare di duplicare i sussidi e di concedere il reddito a chi non ha i requisiti. Ma soprattutto occorre non limitarsi al sussidio economico. La povertà è un fenomeno molto complesso. L’esperienza del ReI dimostra quanto variegati possano essere i bisogni dei poveri e quanto sia necessario un intervento integrato fra tutti i servizi e i soggetti (pubblici e privati) che si occupano di povertà. Emerge così la questione del Centri per l’impiego. Se, come prevede la legge, per ottenere il sussidio si è tenuti a non rifiutare tre proposte di lavoro, è fondamentale che i Centri per l’impiego siano in grado di fare le tre proposte. Oggi questa capacità è ben lungi dall’essere raggiunta e, nonostante i fondi previsti per il loro (giusto) rafforzamento, occorrerà parecchio tempo (cioè almeno due anni) prima che ci riescano. Il rischio che il reddito di cittadinanza si riduca a un sussidio assistenziale è forte. I Centri per l’impiego, scarsamente dotati di risorse umane competenti e persino di una rete integrata di strumenti informatici, soprattutto al Sud, spesso risultano del tutto inefficienti proprio dove servirebbero di più. Oltretutto la riforma dei Centri per l’impiego è ostacolata dal fatto che la competenza non è stata trasferita allo Stato (come si era previsto con la riforma costituzionale bocciata dal referendum), ma è rimasta in capo alle province e alle regioni; ciò rende difficile persino il coordinamento delle politiche contro la povertà: basti pensare che ci sono Comuni che si rifiutano di fornire i dati necessari per dar vita al casellario sociale, previsto dalla legge istitutiva del ReI. La situazione dei Centri per l’impiego è critica anche nelle Marche, che sono lontanissime dalla regione migliore, la Lombardia, che comunque intercetta soltanto un quinto delle offerte di lavoro. C’è poi una terza questione, sulla quale non si è riflettuto abbastanza. L’esperienza pur breve del Rei e quella precedente del Sia hanno dimostrato che per affrontare un fenomeno complesso come quello della povertà occorre innanzitutto un significativo salto culturale. Per combattere la povertà non bastano le misure di sostegno al reddito; bisogna intervenire, oltre che sui centri per l’impiego, anche sulla sanità, sulla scuola e, più in generale, sui servizi sociali per l’intera famiglia. Attorno al ReI, nonostante le disomogeneità esistenti tra le varie amministrazioni regionali, si stava creando una infrastruttura del Welfare locale, fatta di esperienze e di conoscenze che oggi sono una ricchezza da non disperdere. Sarebbe assurdo affidare l’intera gestione del nuovo reddito di cittadinanza, come sembra si abbia intenzione di fare, ai Centri per l’impiego; non sono in grado neppure di gestire il rapporto domanda-offerta di lavoro, come potrebbero elaborare e gestire i progetti personalizzati di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzati al superamento della condizione di povertà che, secondo la legge istitutiva del ReI venivano predisposti “sotto la regia dei servizi sociali del Comune”? E come sarebbero in grado di rapportarsi con gli operatori degli Ambiti territoriale sociali, della scuola, dei servizi sociosanitari e degli uffici sociali comunali, attivandosi anche per realizzare esperienze di coprogettazione con i soggetti del Terzo settore? Resta infine, ancora una volta, il nodo giovani. I dati dell’Istat attestano che quasi la metà di coloro che si trovano in povertà assoluta è costituita da giovani fino ai 34 anni. Se con il reddito di cittadinanza non si affronta espressamente questo nodo, c’è il rischio che si allarghi ulteriormente il divario tra le generazioni. A questo si aggiunge il problema dei bassi salari: i lavori precari sono anche lavori sottopagati; ecco perché fra l’enorme numero di persone in povertà assoluta vi sono non solo i disoccupati, ma anche molti giovani lavoratori. Se si vuole davvero ridurre la povertà e rilanciare i consumi occorre innanzitutto ridurre il cuneo fiscale per chi lavora, garantire la copertura assicurativa e previdenziale fra un lavoro temporaneo e l’altro e aumentare i salari, avvicinandoli alla media europea. La Confindustria lamenta spesso che migliaia di aziende non riescono a trovare lavoratori a media e alta specializzazione: talvolta mancano le competenze richieste, è vero, ma quello che non viene detto è che molti giovani preferiscono andare a lavorare all’estero piuttosto che accettare i salari da fame offerti da quelle aziende. Se non azzererà l’esperienza accumulatasi con l’applicazione dei ReI, la nuova legge sul reddito di cittadinanza non potrà certo risolvere il problema della povertà, ma può essere comunque un importante passo in avanti. È chiaro a tutti, che un contributo importante per risolvere il problema della povertà può venire solo dalla creazione di nuovi posti di lavoro: per questo la crescita dell’occupazione (e di una buona occupazione) deve essere l’obiettivo prioritario di ogni Governo che voglia dare un futuro al nostro Paese. La povertà assoluta continua a crescere, come è attestato anche dall’Istat, perché la ripresa economica che si sta lentamente consolidando fa crescere i posti di lavoro, ma per ora produce soprattutto una occupazione precaria e mal retribuita. La questione della povertà in Italia è certamente una questione occupazionale, ma è anche una questione salariale. Centro Studi Acli Marche – Ottobre 2018