Ormai è chiaro: all’emergenza sanitaria in autunno seguirà una gravissima emergenza sociale, ma, nonostante il blocco dei licenziamenti, l’ampliamento della cassa integrazione e gli innumerevoli aiuti distribuiti, la gravità della situazione sociale è già evidente fin da ora. Le statistiche rese note dall’Istat ai primi di luglio denunciano già che nei mesi della pandemia i più penalizzati sono stati i più fragili, i più deboli e i più poveri.

Lo dimostrano innanzitutto i dati sulla mortalità: i contagi e i morti, anche al Nord, sono più elevati fra i ceti più poveri, fra coloro che vivono in abitazioni più piccole o svolgono lavori con mansioni più basse. Ha inciso un altro dato, poco noto: fra le persone meno istruite – dice ancora l’Istat – c’è una maggiore incidenza delle malattie cardio-vascolari, del diabete e dell’obesità, tutti fattori che contribuiscono a renderle più vulnerabili.

Se si guarda ai dati sull’occupazione, i più penalizzati risultano in particolare i giovani e le donne. Il perché è evidente: i primi a restare senza lavoro sono stati i meno garantiti, i precari che hanno perso il lavoro prima che il governo decidesse di imporre il blocco dei licenziamenti e quelli ai quali non sono stati rinnovati i contratti a tempo determinato scaduti in quei mesi. E molte mamme hanno lasciato il lavoro per non lasciare soli i loro bambini, rimasti senza scuola o senza nonni.

Impressionanti anche i dati relativi all’istruzione. L’insegnamento a distanza non ha raggiunto un bambino su cinque. Secondo l’Istat il 12 per cento dei bambini non ha in casa né un computer né un tablet. Fra i bambini del Sud d’Italia la percentuale sale al 20 per cento. Fra i bambini poveri del Sud la percentuale arriva al 30 per cento.

Ancora più evidenti gli effetti della pandemia sulle nuove nascite. L’Istat certifica un netto crollo delle nascite (diecimila in meno) in un Paese come l’Italia che già da anni si è avviato verso il tracollo demografico. Ormai non siamo più neppure alla crescita zero: sono anni infatti che il numero dei nati non supera il numero dei morti. In pratica siamo un Paese senza figli e, a differenza di altri Paesi europei, non facciamo nulla per aiutare le giovani coppie ad avere più figli.

Infine i dati sulla mobilità sociale. Per spiegare questo aspetto si dice spesso che l’ascensore sociale si è rotto. In realtà secondo l’Istat la situazione è anche peggiore: mentre per le generazioni nate fino a tutti gli anni Sessanta prevaleva una mobilità sociale ascendente (e quindi l’ascensore sociale funzionava ancora), fra i nati negli anni Settanta e Ottanta prevale una mobilità sociale discendente. Sempre più spesso i figli vivono in condizioni economiche e sociali peggiori di quelle vissute dai genitori: l’ascensore sociale invece di salire, scende.

Insomma, le nuove disuguaglianze provocate dal coronavirus si sono sovrapposte alle vecchie disuguaglianze. La pandemia non ha fatto altro che acuire le disuguaglianze già esistenti e che erano già cresciute fortemente negli ultimi decenni, ma ai vecchi problemi ne ha aggiunti alcuni nuovi. Ad esempio è cambiata la composizione di coloro che chiedono aiuto al Comune e alle associazioni caritative: non più solo immigrati, anziani soli e famiglie con molti figli, ma anche i nuovi disoccupati e persino ceti medi impoveriti.

Su questa realtà piomberà l’emergenza sociale del prossimo autunno, quando, oltre al crollo del Prodotto Interno Lordo, esploderanno i licenziamenti e aumenteranno i poveri e i disoccupati.

Da quanto è avvenuto dobbiamo trarre alcune lezioni.

Il modello di crescita degli ultimi 40 anni va cambiato radicalmente: non produce solo inquinamento e dissipazione delle risorse naturali, ma distrugge anche le risorse sociali, perché punta sull’individualismo e sulla competizione.

Va riscoperta la comunità. L’uomo è un animale sociale: vive di relazioni. Non dobbiamo sottovalutare l’importanza dei beni relazionali. E oltre a salvaguardare i legami affettivi che si esprimono nella famiglia, dobbiamo favorire la vita comunitaria.

Va cambiato il mercato del lavoro, dominato dalla precarietà, dal lavoro nero e dall’assenza di diritti e di tutele per molte categorie di lavoratori. Ancora a proposito del mondo del lavoro, va affermata la necessità (e il diritto) alla formazione permanente, perché anche fra i lavoratori adulti nessuno resti indietro nell’uso delle nuove tecnologie.

Serve un capitalismo “ben temperato”, per dirla con il titolo di un libro uscito anni fa; serve un capitalismo “dal volto umano”. Il cambiamento del nostro modello sociale e del nostro modello di crescita economica è urgente, per molti motivi, ma per tre in particolare: 1) l’attuale modello sta distruggendo l’ambiente; 2) sta facendo aumentare le disuguaglianze; 3) sta riducendo gli spazi di democrazia, lasciando tutto il potere ai mercati a loro volto dominati dalle grandi imprese multinazionali.

Sia nel Piano Colao che nei Progetti presentati dal Governo Conte agli Stati generali di giugno vi sono punti condivisibili. Ma questi progetti non vanno solo enunciati: vanno realizzati. E vanno realizzati non per tornare alla situazione pre-Coronavirus, ma per modificarla, in particolare in alcuni punti qualificanti, che a giudizio delle Acli sono: 1) il lavoro, 2) l’istruzione, 3) la famiglia, 4) i giovani, 5) e i poveri, fra i quali non dobbiamo mai dimenticare i senza diritti e gli “invisibili”.