Sono 4.106 i comuni chiamati al voto. I primi sono stati, il 4 maggio, gli 11 comuni del Trentino-Alto Adige; il 25 maggio, in concomitanza con le elezioni europee, si rinnoveranno le restanti 4.095 amministrazioni comunali. In totale, sono circa venti milioni i cittadini che andranno al voto per l’elezione del sindaco e dei consigli comunali in 27 capoluoghi (tra cui Firenze, Bari, Padova, Modena, Reggio Emilia, Perugia, Pescara, Terni, Trento) – in cui risiedono 3.232.691 persone – in 220 comuni superiori ai 15.000 abitanti (5.871.794 residenti) e in 3.860 comuni con meno di 15.000 abitanti (11.985.152 residenti). Sempre il 25 maggio si voterà anche per l’elezione dei Presidenti e dei Consigli Regionali di Abruzzo e Piemonte.
Si tratta, dunque, di uno spaccato articolato che ben rappresenta la complessità italiana, in cui ogni comunità ha le sue criticità, le sue specificità e le sue emergenze, ma in cui non mancano esempi di successo e buone pratiche. Proprio il livello locale, meglio di altri, ha spesso saputo interpretare, e qualche volta anticipare, i mutamenti socio-economici, politici e culturali del Paese, facendosi carico delle necessità e delle istanze dei cittadini. Sono molte, infatti, le amministrazioni che hanno saputo fare scelte coraggiose, spesso partecipate, in grado di migliorare qualità della vita e soprattutto capaci di ridare fiducia alla cittadinanza. I comuni hanno sempre più coscienza del proprio ruolo e intervengono nei processi decisionali con determinazione sempre maggiore, chiedendo visibilità e partecipazione nei processi che interessano lo sviluppo del territorio.
La vitalità comunale, che spesso mette a nudo mancanze, lacune e problemi legati alla gestione della res publica – imponendo tanto alle istituzioni di livello superiore (Governo e Parlamento) quanto ai partiti un esame critico del proprio ruolo nello sviluppo del Paese – affonda le proprie radici nelle tradizioni municipalistiche italiane, che da sempre esaltano le caratteristiche positive del decentramento ed i valori della democrazia. Soprattutto in questo momento di profonda crisi economica e sociale il dinamismo delle comunità locali che non vogliono lasciarsi emarginare, ma chiedono invece d’essere partecipi dei processi decisionali di sviluppo, è un segnale importante. Ecco perché le Acli ritengono fondamentale riconoscerne il ruolo, garantendo loro sia le risorse sia le competenze necessarie a una piena espressione e realizzazione. Ecco perché le Acli vogliono consolidare il loro quotidiano impegno nei territori, continuando ad essere protagoniste di una politica per il bene comune.
Queste elezioni, così come quelle concomitanti per il Parlamento Europeo, rappresentano dunque un’occasione importante per tornare a riflettere sul ruolo delle istituzioni politiche, economiche e culturali, globali, intermedie e locali, anche alla luce del concetto di “poliarchia” che – ripreso nell’enciclica di Papa Ratzinger “Caritas in Veritate” – contempla una divisione sociale dei poteri capaci di sviluppare in modo operoso il pluralismo e il bene comune, riscrivendo la grammatica della sussidiarietà. Difatti, in un sistema poliarchico si valorizza la funzione di reciproca limitazione che ciascun potere sociale svolge rispetto a tutti gli altri e le formazioni sociali assumono responsabilità pubbliche con una valenza pari ai soggetti istituzionali che non godono più di alcun primato. Tutti i soggetti acquisiscono e condividono in modo paritario meccanismi e procedure di reciproca legittimazione e interazione sul versante programmatico, decisionale e regolativo.
Tale approccio implica, inevitabilmente, la necessità di porsi con nettezza le questioni urgenti del rinnovamento del sistema delle istituzioni, dei poteri locali, degli attori sociali ed economici. Riflettere sul tema della poliarchia significa rivedere il concetto di rappresentanza – spesso ancora legato a una cultura novecentesca – in termini moderni. Abbiamo presenti i molti elementi positivi apportati da tanti amministratori locali che con fatica cercano d’innovare gli enti pubblici, facendosi portatori di un’interessante spinta riformatrice. Ma siamo anche consapevoli che ancora troppi attori della politica appartengono a stagioni passate; hanno culture ormai del secolo scorso e continuano ad alimentare sistemi di selezione delle classi dirigenti che sono ancora troppo spesso quelli della cooptazione e dell’appartenenza acritica a un gruppo. Nei territori ci sono invece passioni e competenze che come Acli abbiamo il dovere di incoraggiare, d’indirizzare e formare. Non dobbiamo farlo da soli, certo. Siamo, evidentemente, chiamati a rafforzare i nostri legami con le altre forze sociali e con i molti innovatori presenti proprio a livello comunitario perché insieme a loro possiamo contribuire a costruire dal basso una grande spinta al cambiamento e alla speranza.
Per quanto ci riguarda in modo più diretto, dovremmo confidare maggiormente nella consapevolezza che la nostra autonomia è il principio generativo, la forza e la risorsa della nostra stessa esistenza e consistenza. Dovremmo altresì superare quella sorta di ancillarità alla politica che, a volte, diviene un riparo rassicurante. Le Acli proprio del loro essere popolari e radicate nelle comunità locali hanno fatto il proprio punto di forza e devono rimanere fedeli alla loro vocazione democratica e sociale: essere presenti e attivi nelle comunità, dialogare con le amministrazioni locali e con tutti gli altri attori presenti sul territorio è da sempre il modo in cui le Acli fanno politica, rivendicando il proprio ruolo di lobby popolare e democratica che contribuisce alla definizione della cittadinanza. Quella delle Acli è una politica dal basso; una politica ricca di 7.500 strutture territoriali e con più di 500 aclisti eletti e impegnati in politica in diverse formazioni politiche e istituzionali.
Dobbiamo essere capaci di elaborare proposte per supportare l’azione di questi amministratori nella loro quotidiana vita politica, laddove gli interessi da sostenere in modo trasparente sono quelli del lavoro, del welfare, della convivenza e i soggetti da tutelare e rappresentare con caparbietà sono i giovani senza lavoro, gli immigrati, i cassintegrati e i licenziati, le famiglie in difficoltà e gli anziani. Le Acli sono infatti consapevoli che per rimettere in moto l’Italia – superando la grave crisi economica, e soprattutto di valori, che la affligge ormai da troppo tempo – è necessario ridare voce e dignità alla base, alle comunità locali, battendo la deriva dell’antipolitica; una deriva di cui si vede l’inizio, senza saperne la fine. Questo significa essere in grado di offrire sia risposte concrete ai problemi della realtà immediata sia un orizzonte di valori (democrazia, lavoro, equità, giustizia, pace) che consenta un nuovo modello di sviluppo.
Rilanciare la politicità delle Acli in questa difficile fase di transizione significa, dunque, indicare proposte costruttive su alcune questioni per noi cruciali; proposte in linea con la nostra tradizione di autonomia, di responsabilità e di concretezza; proposte all’altezza di quel cattolicesimo democratico e sociale che è stato protagonista di una grande stagione di riformismo nel Paese, ma che è tuttora vitale nella società civile e nelle comunità. Basti pensare a quanto sia puntuale, costante e diffusa l’attività delle Acli locali sulle questioni territoriali, e non solo. Proprio questa ramificata e tradizionale caratteristica di essere attori dell’azione sociale dal basso, rappresenta una risorsa che le Acli devono e vogliono valorizzare. Così com’è importante valorizzare il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni che li riguardano più da vicino anche attraverso la diffusione di forme di democrazia deliberativa, partecipativa e digitale. Le nuove tecnologie costituiscono un valido strumento di supporto per favorire una partecipazione consapevole di tutti i cittadini e, quindi, per produrre decisioni migliori; per aumentare la legittimità delle decisioni, in quanto raggiunte con il coinvolgimento delle comunità; per gestire i conflitti, riducendone l’intensità e trasformandoli in opportunità di produzione di scelte condivise.
Forti della nostra lunga tradizione democratica e di un radicamento capillare su tutto il territorio, in vista della prossima scadenza elettorale ci impegniamo a partecipare attivamente alla costruzione di un modello di cittadinanza teso a promuovere uguaglianza di opportunità, a incentivare responsabilità e ad investire nella costruzione di una società coesa e solidale. Il nostro impegno dovrà essere di natura bifronte: da un lato ci poniamo quale soggetto politico della società civile; dall’altro, quale soggetto della solidarietà sociale e di sussidiarietà nel rapporto con le istituzioni e con la Pubblica Amministrazione.I temi che poniamo sono quelli che da sempre appartengono alla nostra storia ormai settantennale e che contraddistinguono la nostra presenza nella società italiana: la fedeltà alla Chiesa, al Lavoro ed alla Democrazia. Concretamente questo per noi oggi significa dare attenzione e risposta a tutta una serie di questioni che vanno dalle politiche di contrasto alla povertà, alle politiche abitative; dalle politiche culturali e di sostegno ai giovani, all’assistenza ai soggetti deboli, senza dimenticare il tema della cittadinanza. L’auspicio è che la nostra riflessione possa contribuire alla maturazione di scelte consapevoli per il Paese.
1. Riformare le istituzioni per ridare voce alle comunità locali
Le elezioni ci rimandano, inevitabilmente, alle riforme tutt’ora in atto e da molti percepite come ancora poco uniformi. La trasformazione del Senato in camera territoriale, il superamento dell e province e l’istituzione delle aree metropolitane, la riforma del Titolo V della Costituzione, intesa a razionalizzare i rapporti centro-periferia e gli organi di rappresentanza locale, così come la rinnovata attenzione per la finanza territoriale sono, infatti, di nuovo al centro del dibattito politico. In questo quadro ha una sua coerenza la costituzione di un Senato delle Autonomie, che ha l’innegabile pregio di portare i territori nel “cuore” dello Stato: al processo di decentramento dei poteri dall’alto al basso si affianca un movimento in senso contrario che porta le istanze e le rappresentanze di tutti i livelli territoriali dentro lo Stato centrale.
Tuttavia, alcuni aspetti della revisione del funzionamento dei governi locali previsti dal progetto governativo destano perplessità. L’approvazione della legge n. 56 del 7 aprile del 2014 ha introdotto un’ampia riforma in materia di enti locali, prevedendo l’istituzione delle città metropolitane, la ridefinizione del sistema delle province e una nuova disciplina in materia di unioni e fusioni di comuni che lascia, però, diverse questioni aperte, ad iniziare l’assenza di una governance delle politiche di area vasta, solo in parte riassorbite dall’istituzione delle città metropolitane.
Fondamentalmente, sono tre le criticità attribuite alla nuova legge: non si abrogano le province – che sono di fatto ridisegnate nelle loro funzioni ed organi, con meno poteri rispetto a quelli attuali – e dal 2015 ci saranno anche dieci Città Metropolitane; non consente risparmi certi; non è chiara nella sua evoluzione futura, prevedendo un processo di attuazione decisamente lungo e complesso. Ciò, in parte, è dovuto al fatto che si è agito sull’onda dei tagli dei costi della politica, senza però definire una volta per tutte le funzioni fondamentali delle autonomie locali. Per le Acli solo se la riforma non si riduce ad una mera regolamentazione giuridica volta al risparmio, ma è intesa come l’attivazione di un processo di cambiamento organizzativo in grado di avviare forme di collaborazione istituzionale, allora i suddetti punti debolezza potrebbero diventare punti di forza. Occorrono però accordi tra Stato e Regioni, leggi attuative e, ancora, specifici decreti che determineranno le risorse finanziarie, strumentali e di personale da trasferire di volta in volta.
Analogamente, nell’affrontare la riforma del Titolo V sarà dirimente porre mano anche al tema del Codice delle autonomie, atteso anch’esso da una decina d’anni. Sarebbe inoltre opportuno aprire anche per i Comuni una stagione costituente volta a rivederne gli Statuti che, nati nella maggior parte di casi agli inizi degli anni ’90, sono sempre meno attuali e compatibili con l’attuale scenario politico e sociale. Le condizioni politiche, economiche, sociali e culturali che ne hanno ispirato la genesi sono, infatti, profondamente mutate e sarebbe miope trascurarlo senza valutarne una possibile evoluzione alla luce alla luce dei principi di sussidiarietà, di poliarchia e di solidarietà; principi, come già ribadito in precedenza, più adatti a definire un modello di sviluppo maggiormente adeguato alla realtà dei nostri giorni. A giudizio delle Acli, le linee d’indirizzo dei rinnovati Statuti comunali dovrebbero inoltre contenere dei principi di ordine attuativo destinati da un lato a garantire la poliarchia a livello comunale; dall’altro, ad attivare la sussidiarietà orizzontale soprattutto nel rapporto tra cittadini e Pubblica Amministrazione, in una fase in cui quest’ultima è pervasa da un’impellente necessità di rinnovamento, ma la crisi ne contrae gli spazi operativi.
In tale contesto ben s’inserisce e trova spazio l’operato delle Acli quale soggetto della poliarchia, ma anche soggetto di azioni, servizi e strumenti della sussidiarietà e della solidarietà sociale. È infatti il Comune l’ente di maggiore prossimità rispetto ai cittadini e al quale, inevitabilmente, questi ultimi si sentono più vicini. Proprio perché soggetti di prossimità i Comuni – lo ribadiamo – devono accrescere la loro capacità programmatoria e regolatoria, magari – ci sentiamo di suggerire sulla scorta di quanto avvenuto in alcune realtà territoriali – dotandosi di un Piano Regolatore Sociale.
Inoltre, sempre per quanto riguarda i Comuni, alcuni aspetti sono ancora poco chiari: né si conoscono i fabbisogni standard degli enti locali (circa l’80% della spesa comunale) né si pongono freni all’esplosione delle società partecipate che negli anni si sono sviluppate in modo incontrollato, così come i costi dei sistemi comunali. Eppure, se l’obiettivo di riforma del Titolo V è quello di definire in modo non equivoco le funzioni fondamentali tra i vari livelli di governo (Comuni, Città metropolitane, Regioni e Stato), è proprio a livello costituzionale che bisognerebbe trovare un rimedio alle degenerazioni che in questi anni hanno interessato gli enti locali, e in particolare le Regioni. Purtroppo la legge ordinaria si è dimostrata inefficace e sarebbe un errore non superare una volta per tutte l’attuale policentrismo anarchico.
Se non si vuole andare incontro all’ennesimo fallimento, è importante che il rapporto tra lo Stato e le autonomie locali segua una linea di complementarietà, giungendo a una riforma che si configuri non solo come un’accentuazione del potere delle Regioni, ma che preveda concrete opportunità di miglioramento dell’efficienza del settore pubblico, ad esempio restituendo alle Regioni un ruolo programmatico e non solo amministrativo/gestionale come è stato fino ad oggi. Una tale prospettiva aiuterebbe a superare uno dei punti deboli della riforma attuata nel 2001: l’aumento delle competenze e dei poteri decisionali degli enti territoriali non si è accompagnato a un parallelo aumento della loro autonomia fiscale e, pertanto, all’espansione delle spese non è corrisposto al alcun prezzo politico in termini d’inasprimento delle tasse locali, sollevando gli enti territoriali da ogni responsabilità. L’esempio più eclatante di tale incontrollata autonomia di spesa è rappresentato dagli scandali sull’utilizzo a sproposito dei fondi elettorali che hanno interessato quasi tutte le Regioni italiane.
In conclusione, perché sia sostenibile, le Acli ritengono che una riforma organica dovrebbe tenere conto anche dell’autonomia fiscale degli enti locali che dovrà essere coerente con la loro autonomia organizzativa e di spesa, in modo da alleggerire il peso per lo Stato e da far intervenire direttamente gli enti locali stessi nel reperimento dei fondi loro necessari, secondo un’ottica che prevede un maggiore senso di responsabilità a tutti i livelli di governo. Le Acli accolgono invece con favore il tetto agli stipendi previsto dalla riforma, in base alla quale “con legge dello Stato sono stabiliti gli emolumenti complessivamente spettanti” al presidente e ai consiglieri regionali; stipendi che in ogni caso non devono essere superiori a quelli spettanti ai sindaci di comuni capoluogo di Regione. Analogamente riteniamo condivisibile la misura volta a vietare il versamento di contributi pubblici ai gruppi politici dei consigli regionali e la gratuità dell’incarico di sindaco metropolitano, di consigliere metropolitano e di componente della conferenza metropolitana, prevista dalla legge n. 56 del 7 aprile del 2014. La stessa legge prevede, inoltre, che anche le cariche negli organi delle unioni di comuni siano svolte a titolo gratuito.
È infine positivo che sempre la legge 56/2014 stabilisca diverse misure agevolative e organizzative per superare il pulviscolo comunale, incentivando la fusione di comuni: da un lato si tutela la specificità dei comuni che si sono fusi; dall’altro, si mantengono anche nel nuovo comune le eventuali norme di maggior favore e gli incentivi di cui beneficiano i comuni oggetto della fusione. Con riferimento alla disciplina generale dei comuni, le Acli valutano positivamente la modifica del numero di consiglieri e assessori nei comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti e il fatto che nelle giunte comunali nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento.
2. La rappresentanza di genere per consolidare la democrazia rappresentativa
Proprio a partire dai Comuni, in quanto luogo più prossimo di governo della cosa pubblica, può probabilmente realizzarsi la sfida di rendere effettiva la partecipazione delle donne alla vita politica, anche perché la Legge del 23 novembre 2012, n. 215, oltre a introdurre la doppia preferenza di genere, prevede disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali.
Indubbiamente una soluzione innovativa e interessante, anche se – è bene ribadirlo – le politiche culturali non si fanno solo con le norme: assicurare la presenza di donne candidate fa crescere (un po’) la percentuale di elette, ma non necessariamente produce leadership femminili. Basti pensare che in Italia non abbiamo ancora visto una donna alla Presidenza della Repubblica; ma neanche una donna primo ministro. Se tutto continuerà a dipendere o dalla volontà politica dei partiti o da una norma di legge, che comunque dovrà sempre misurarsi con la scelta libera degli elettori, difficilmente le cose cambieranno: leader si diventa mettendosi in gioco in prima persona sul terreno della competitività, sulla base delle idee, della capacità di stringere alleanze, di scegliere i tempi e anche di incarnare nelle proprie parole, nei propri gesti, in una parola nella propria persona, una proposta politica. E quello della rappresentanza è un terreno collettivo non particolarmente favorevole all’emergere di personalità individuali.
Per tale ragione, per consentire alle donne di essere presenti nel mondo della politica è necessario pensare diverse strategie convergenti nell’obiettivo di favorirne la capacità competitiva piuttosto che concentrarsi su un unico strumento – quello normativo per l’appunto – che ha peraltro il difetto di non puntare sulla competitività e quindi sull’iniziativa politica. Ad esempio, chiediamo una diversa organizzazione dei “tempi” della politica, tale da consentire alle donne quella “conciliazione” alla quale ci si sta da poco aprendo nel modo del lavoro ma di cui ben poco si è discusso in riferimento al mondo della politica. È evidente, nulla garantisce che una maggiore rappresentanza femminile possa cambiare in meglio l’agenda politica, ma le Acli ritengono che puntare sulle donne sia una decisione coerente con un’idea espansiva della democrazia rappresentativa: esse non sono una minoranza, bensì il 50% della popolazione, ed è quindi urgente trovare misure volte a eliminare una sorta di inaccettabile discriminazione di fatto che le relega al di fuori della vita politica. Peraltro, in quanto espressione di un gruppo ancora ai margini dei luoghi decisionali, proprio le donne potrebbero essere il soggetto in grado di rinnovare la politica, portando le nuove idee di cui, ci sembra, ci sia molto bisogno.
3. Le comunità locali come risorsa e leva dello sviluppo
I recenti provvedimenti volti ad incentivare una ripresa dell’occupazione manifestano la volontà del nuovo Governo d’intervenire rapidamente a favore del lavoro e rimettono a tema una serie di questioni importanti. Ma come abbiamo più volte ribadito, sono i comuni e gli enti locali le istituzioni più vicine ai cittadini e al mondo economico. Sono dunque essi i luoghi fondamentali per creare e sostenere un clima sociale nel quale nessuno si senta solo o contro gli altri. È infatti importante vivere questo tempo difficile percependosi insieme come comunità, socializzando le difficoltà e individuando opportunità e strategie innovative. Crediamo sia importante ritrovare un clima di dialogo sociale con il mondo del lavoro affinché si possa dare efficacia agli intenti del Governo tesi a disegnare una politica di sviluppo che ridia un progetto al Paese. In tale prospettiva, segnaliamo tre aspetti per noi prioritari a livello locale: “essere attraenti”; promuovere sviluppo; mettere in campo politiche attive del lavoro.
Essere attraenti, significa essere in grado di valorizzare i nostri territori, le cui potenzialità, nel migliore di casi, non sono sfruttate appieno per carenze nelle infrastrutture materiali e immateriali e nei servizi privati e pubblici. Per creare un contesto attraente, innanzitutto per chi può promuovere sviluppo nel proprio territorio, un primo passo necessario é quello di realizzare patti sociali territoriali, come del resto faceva l’ormai tanto citato Olivetti: forme di dialogo e programmazione comune che coinvolgano, in ampie porzioni di territori, gli enti locali, le forze produttive, le forze sociali, il mondo del Terzo settore e la finanza locale. Siamo tutti troppo piccoli (come imprese, come enti, come comunità) e senza ampie alleanze il rischio di disperdere risorse ed energie è reale. Serve invece fare squadra e individuare insieme i settori strategici nei quali poter intervenire in ciascun territorio (dal rilancio e dall’innovazione del manifatturiero, al turismo, all’agroalimentare, al Made in Italy, alla Green Economy) e le priorità su cui poter realisticamente lavorare. Peraltro, tale dimensione di rete dovrebbe avere anche una valenza internazionale: spesso molti comuni hanno gemellaggi con altri Paesi e sono sempre più numerose le imprese che internazionalizzano la propria produzione. É dunque fondamentale accompagnare e seguire questo processo, sviluppando nuovi contatti e collaborazioni (ad esempio attraverso i gemellaggi si può incrementare il numero di giovani che fanno soggiorni studio o lavoro all’estero). Sempre al fine di rendere attraenti i territori, sarebbe opportuno prevedere un sistema di premialità per quei comuni che mettono in atto misure volte a combattere e a prevenire l’evasione fiscale.
Le Acli ritengono, inoltre, che per promuovere lo sviluppo dei territori la strategia del Patto territoriale possa offrire un valido aiuto nella costruzione di rapporti con le università e nella creazione di reti d’impresa che favoriscano una ricerca orientata ad innovare produzione e processi, ma anche forme di accesso e di accordo con il credito a garanzia di nuove imprese o nuovi investimenti. Promuovere lo sviluppo significa anche potenziare i servizi alla persona: un settore strategico non solo per creare occupazione, ma anche per favorire la conciliazione e quindi per dare più spazio al talento e alla creatività nei territori. Inoltre, i comuni potrebbero rinunciare alla gestione diretta di alcuni servizi per creare e coordinare un’offerta pubblica più ampia, promossa insieme ai soggetti di Terzo Settore. Potrebbero fare da volano allo sviluppo del welfare locale attraverso accordi tra imprese e sindacati coinvolti nel patto territoriale prevedendo, ad esempio, risorse che i lavoratori possono destinare all’acquisto di servizi di welfare locale. In accordo con le Asl che hanno il problema di ridurre i ricoveri a favore di una maggiore domiciliarità, si potrebbe inoltre favorire l’emersione del “welfare faidate”, qualificando e inserendo in una regia pubblica migliaia di assistenti familiari. Proponiamo, anche, che gli immobili non utilizzati o sottoutilizzati vengano offerti in comodati agevolati o gratuiti per esperienze di imprenditorialità sociale o giovanile e per forme di coworking. Sulla stessa scia, sarebbe importante favorire la nascita di banche dei terreni che incentivino il riutilizzo dei terreni incolti creando, così, anche nuovi posti di lavoro.
Infine, quando parliamo di politiche attive del lavoro a livello locale pensiamo innanzitutto alla lotta alla dispersione e alla necessità che, fin dalle scuole elementari, i giovani facciano esperienze d’incontro con il mondo dell’economia e del lavoro locale. Scuola e mondo dell’associazionismo possono fare molto e, soprattutto, possono farlo a costi contenuti. In secondo luogo, gli enti locali, di concerto con il mondo del Terzo Settore, dovrebbero sperimentare sia nuove forme di riqualificazione professionale sia proposte volte a salvaguardare la professionalità e a sostenere la motivazione di chi ha perso il lavoro e riceve un sussidio in attesa di un nuovo impiego. Infine, sempre all’interno della strategia del patto territoriale, occorre sfruttare al meglio le opportunità offerte da Garanzia Giovani e dai fondi europei, favorendo il coinvolgimento sussidiario delle realtà sociali che lavorano con competenza ed evitando che le risorse servano solo sovvenzionare le attività ordinarie.
4 Dal welfare state alla welfare society
Oggi parlare di welfare implica ripartire da un’attenzione alla persona e al soddisfacimento dei suoi bisogni fondamentali per una vita dignitosa. In questo senso, la dimensione locale acquisisce una valenza straordinaria per la costruzione di un nuovo modello di welfare, basato su un solido partenariato tra le amministrazioni locali, operatori del terzo settore e una partecipazione più attiva del cittadino-utente, così da costruire reti di protezione sociale e risposte mirate a specifici bisogni. Di fronte alla progressiva riduzione del centralismo statale in materia di welfare emerge, accanto al decentramento delle competenze, il ruolo maggiormente proattivo della società nelle sue diverse componenti: in questo scenario si attua progressivamente il passaggio dal welfare state al welfare society, dove l’attuazione del welfare è espressione della società ancora prima dello Stato. Pertanto, dal momento che il principale obiettivo delle amministrazioni locali è il perseguimento della coesione sociale, lo stesso è più facilmente perseguibile attraverso l’erogazione di servizi reali individuati sulla base di specificità territoriali. Favorire il passaggio dal Welfare State alla Welfare Society, ossia nella direzione di una società del benessere più autodiretta, più responsabilizzata, meno burocratizzata e più equa significa, dunque, valorizzare le risorse della società civile, trasferendo ad essa, senza con ciò annullare l’intervento dello Stato, alcuni dei servizi finora svolti dalle istituzioni pubbliche. In questo modo è possibile valorizzare la responsabilità dei cittadini e dei mondi vitali presenti nella società, realizzando un nuovo equilibrio tra Stato, mercato e società civile.
Le Acli da sempre promuovono un Welfare municipale e comunitario al servizio dei più deboli, offrendo rappresentanza e coinvolgimento soprattutto ai più fragili e alle povertà vecchie e nuove (i disoccupati, i lavoratori in cassa integrazione, i giovani precari, gli immigrati, le famiglie monoreddito, gli anziani) su cui continuano a scaricarsi le conseguenze della crisi. Per molte di queste fasce di cittadini più deboli il rischio di abbandono per mancanza di risorse è reale e diffuso. Per questo le Acli sono consapevoli che la spesa sociale, sempre più debole per qualità e per quantità, deve essere accompagnata da una seria progettualità sociale, superando la cattiva abitudine in base alle quale le risorse sono trasferite dal centro ai territori senza alcuna indicazione sul loro utilizzo e senza verifiche di sorta. Tali risorse andrebbero indirizzate nella costruzione di un’ “Infrastruttura nazionale per il welfare locale”, dove lo Stato stanzia le risorse, definisce poche regole chiare per il loro utilizzo, sostiene i territori nell’attuazione, ne verifica l’effettivo impiego.
In questa cornice s’inserisce la proposta di Acli e Caritas di un Reddito d’Inclusione Sociale, da collocare in un piano nazionale contro la povertà, e la decisione di aderire insieme a molte altre forze sociali, sindacali e istituzionali ad un’Alleanza contro la povertà in Italia. Attualmente l’Alleanza, tenendo conto delle proposte già elaborate, sta svolgendo un lavoro di approfondimento volto a presentare una proposta organica di riforma ampiamente condivisa da tutti i soggetti che la compongono. Rispetto a quanto previsto nel documento tecnico, per l’appunto in fase di revisione, in questa sede come Acli ci sembra opportuno sottolineare l’importanza del ruolo svolto dalle istituzioni ai diversi livelli (nazionale e locale). Nel dettaglio, al livello nazionale si è ritenuto opportuno riconoscere un ruolo strategico in materia di erogazione dei sussidi economici in favore dei beneficiari (i soggetti che versano in povertà assoluta e che accettino di assumere l’impegno con lo Stato a intraprendere percorsi attivi di occupazione e inclusione sociale, in cambio del sussidio economico); al livello locale (Regioni e Comuni) è attribuita la funzione di gestire la ripartizione degli stessi sul territorio, oltreché la gestione e l’erogazione dei servizi. Il modello, in via di definizione, sembra orientarsi verso un funzionamento che vede due elementi importanti d’innovazione: il primo è la prossimità all’utenza e la diversificazione dell’offerta dei servizi erogati, in base alle specificità dei vari territori; il secondo è il forte binomio tra i comuni e i soggetti dl terzo settore nella definizione ed erogazione dei servizi previsti dallo strumento.
5 Favorire la cittadinanza familiare
In tale quadro, non possiamo dimenticare il ruolo che riveste uno dei principali protagonisti – suo malgrado – del nostro sistema di welfare: la famiglia. Quotidianamente, le Acli, attraverso la loro azione sociale e i servizi che mettono a disposizione dei cittadini, incontrano persone che vivono differenti condizioni familiari. Per questo le Acli auspicano un atteggiamento di speciale attenzione nei confronti delle situazioni più delicate, ma anche di quelle più ordinarie in cui le famiglie si devono confrontare con i problemi del quotidiano. Le tre questioni principali rispetto alle quali le Acli chiedono alla politica un impegno concreto sono: la formazione di nuove famiglie; l’impoverimento e le strategie di consumo; la conciliazione tra vita e lavoro. Ciò al fine di rafforzare la condivisibile affermazione per cui se è indispensabile difendere la vita nel delicatissimo momento della sua origine e della sua fine, non dobbiamo dimenticare che molto di quanto accade in questi momenti dipende dalla “vita durante”, cioè dal contesto socioeconomico e culturale in cui si vive.
Quanto alla formazione di nuove famiglie, molti fattori dalla precarietà del lavoro alla mancanza di opportunità abitative incidono negativamente. Inoltre sempre più spesso le cronache ci riferiscono di un logoramento dei legami familiari che si esprime, di frequente, con atti di violenza e maltrattamento verso i soggetti più fragili. In tale scenario è importante rifondare la famiglia su percorsi di affettività e di mutuo sostegno, di rispetto reciproco e di crescita collettiva, ma sono fondamentali anche politiche volte ad incrementare e a stabilizzare il lavoro giovanile e che rendano accessibile alle coppie il mercato della casa. Nello specifico le Acli chiedono alle amministrazioni locali di attivare politiche e misure volte a: promuovere un’educazione finanziaria ed economica per una più attenta gestione delle risorse familiari, che contempli anche un consumo e un investimento etico e sociale; promuovere l’educazione all’affettività e alla genitorialità, anche nei percorsi scolastici; estendere agli stranieri tutte quelle prestazioni sociali che sono offerte alla popolazione italiana; prevedere pene più severe per la violenza domestica; favorire percorsi di cittadinanza familiare dove poter crescere nella fiducia reciproca, nell’apprendimento delle competenze civiche e sociali; avviare un’azione di lobby politica per ampliare il fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, relegato oggi a sole 15 città maggiori.
Per supportare le famiglie nel graduale impoverimento economico, ma potremmo dire anche civile e culturale (circa il 20% dei ragazzi fra i 18 e i 24 anni non possiede un titolo di scuola media superiore né una qualifica ed è fuori da ogni circuito formativo) che le vede protagoniste, le Acli si impegnano a favorire lo sviluppo di politiche fiscali capaci di dare alle famiglie un po’ più di liquidità, soprattutto alle giovani generazioni (modello Parma e Roma); a sostenere le famiglie in povertà assoluta; ad avviare politiche di “manutenzione” e “ri-orientamento” del sistema educativo e formativo.
Vi è, infine, il tema dell’asimmetria nella distribuzione dei compiti familiari che gravano quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. Le Acli ritengono, quindi, urgente e necessario promuovere politiche di conciliazione per uomini e donne. Alcuni passi concreti potrebbero essere l’aumento dei finanziamenti per la creazione dei nidi, l’aumento della spesa pubblica per gli asili nido e gli altri servizi a supporto del lavoro di cura per bambini, anziani e disabili; assicurare con maggiore rigore la parità lavorativa, non solo come uguale accesso al lavoro delle donne, ma anche come serio controllo sull’applicazione delle norme nei percorsi lavorativi e nelle condizioni contrattuali, per evitare fenomeni estesi ed impropri di precarietà e di gap retributivo; promuovere un piano di detrazioni e forme di voucher, anche aziendali o inseriti nella contrattazione territoriale, per far emergere e crescere un welfare dei servizi alla persona e alla famiglia, a partire da una più forte rete pubblica che alimenti la dimensione comunitaria e di conciliazione delle nostre città e dei nostri paesi.
6 Le Acli attori di solidarietà e di sussidiarietà
Il nostro impegno nella società – lo ribadiamo – seguirà due direttrici principali: le Acli saranno un soggetto dinamico sia sul fronte della politica sia attori di solidarietà sociale e di sussidiarietà nel rapporto con le istituzioni e con la Pubblica Amministrazione. Nell’ottica di sviluppare in modo operoso il pluralismo e il bene comune, la sussidiarietà a cui pensano le Acli deve potersi correlare con la corresponsabilità, all’interno di un quadro in cui forze sociali e istituzioni partecipano attivamente ad un processo virtuoso capace di dare una risposta concreta ai bisogni di un territorio. Ciò implica un’efficace integrazione del nostro sistema, grazie alla quale i servizi che siamo in grado di offrire – mai attività di natura eminentemente commerciale – oltre ad essere integrati con il profilo associativo si distinguano per la loro “qualità politica e sociale”. Del resto, la complessità dei problemi con i quali siamo oggi chiamati a confrontarci non ci consente di seguire un approccio settoriale. Se vogliamo che la nostra azione sia reale e che i nostri servizi – siano essi di natura fiscale, sociale, previdenziale, ecc. – siano adeguati, non possiamo che seguire un approccio integrato e trasversale che abbracci e contempli le molteplici sfaccettature delle nostre Acli. Ciò richiede una continua capacità di rinnovamento al nostro interno, ma anche di ascolto al nostro esterno in modo da poter rispondere ai bisogni emergenti dai territori in modo puntuale e, laddove sia necessario, anche con nuovi modelli d’intervento e servizi innovativi.
Sappiamo tutti che in un contesto di marcata disuguaglianza, anche nelle opportunità, crescono il disorientamento dei cittadini e delle famiglie e le difficoltà tanto di accedere alle prestazioni sociali, sanitarie, previdenziali, quanto di rendere concreta l’esigibilità dei propri diritti. La diffusa e affidabile rete di consulenza, tutela e patrocinio rappresentata dai nostri Patronati può pertanto risultare, in futuro, ancora più preziosa su molti versanti finora inediti, anche rispetto alla dimensione del welfare municipale e comunitario. La stessa dimensione del Fisco locale ha assunto un’importanza estremamente incisiva nel rapporto tra amministrazioni e cittadini.
Per fare degli esempi, quanto all’azione dei nostri Patronati, si sviluppano sul territorio protocolli d’intesa con questure e prefetture locali per servizi riguardanti gli immigrati; si organizzano di esami di lingua italiana per il rinnovo dei permessi di soggiorno, servizi riguardanti gli amministratori di sostegno (l. 6/2004) per la predisposizione della domanda di nomina da presentare al Giudice Tutelare, intermediazione domanda/offerta lavoro (pensiamo soprattutto a Colf e Badanti); social card, bonus energia, sportello amico sono inoltre servizi sviluppati specificamente in accordo con i Comuni. Il legame con il territorio è altrettanto importante per i nostri Caf. Se ben guardiamo, molte delle novità fiscali apparse nell’arco degli ultimi 2-3 anni hanno avuto come grandi protagoniste alcune “new entry” messe a disposizione degli enti locali come ulteriori mezzi economici per il risanamento dei bilanci interni. Questo aspetto, per altro, non deve porre in secondo piano il più generale percorso di avvicinamento a una sempre più marcata autonomia delle realtà locali rispetto allo Stato Centrale, voluta appunto dal disegno federalista. Basti pensare all’Imu e alle sue innumerevoli varianti o alla neonata Imposta Unica Municipale (per non parlare poi dei criteri Isee prossimi al rinnovo e sui quali gli stessi Comuni potranno apporre delle varianti ad hoc in relazione alla composizione del nucleo familiare), per farsi un’idea di come il Fisco “periferico”, in un ristretto lasso di tempo, abbia cambiato faccia più volte.
Alla luce di ciò, è evidente il ruolo fondamentale dei nostri Patronati e Caf, in quanto “terra di mezzo”tra gli enti locali che impongono il prelievo dei tributi, adempimenti amministrativi, ecc. e i cittadini. Prova ne sono i molti servizi che gli stessi Patronati e Caf “adattano” su misura rispetto al contesto nel quale operano. Il verbo “adattare” non è scelto a caso: il Fisco locale è per definizione un insieme di regole che cambiano da Comune a Comune, e molto spesso anche altre regole non prettamente fiscali possono andare ad incidere su aspetti che invece sono direttamente legati alla consegna della dichiarazione dei redditi (si veda, ad esempio la questione delle varie Scia/Dia in caso di ristrutturazione delle unità abitative). Guardando quindi all’intricata fisionomia del Fisco locale, i Caf possono essere visti come una sorta di “banca dati” alla quale ricorrere per avere risposte sicure, semplificando così i propri doveri di contribuente.
Proprio perché le regole cambiano in base al contesto territoriale e alle specificità di ognuno, i nostri sportelli di servizio riescono rapidamente a inquadrare le diverse singole situazioni, trovando la risposta più opportuna. Ecco dunque il ruolo fondamentale svolto nell’avvicinamento tra amministrazioni e cittadini: un ruolo nel quale i Caf e Patronati traducono in prassi quotidiana il linguaggio ufficiale delle delibere. È altrettanto ovvio, però, che la collaborazione è ancor più efficace se viene alimentata da entrambi i lati. Di conseguenza, un canale di comunicazione più aperto e scambievole tra gli enti di servizio Acli e le amministrazioni, ad esempio per far circolare con più rapidità ogni aggiornamento utile in merito alle normative locali, sarebbe certamente una facilitazione di non poco conto per chi quelle normative contribuisce sul campo a farle applicare.
La sfida che, dunque, lanciamo a noi stessi è che le Acli possano diventare lo spazio e il luogo in cui tutti i cittadini riescono a trovare un’ampia rete di servizi certificati qualitativamente e volti al mantenimento di un elevato standard di benessere economico e di armonia sociale. Ciò è quanto mai urgente in questo preciso momento storico in cui il rapporto tra cittadino ed ente locale si sta logorando e quest’ultimo è sempre più spesso percepito come un esattore piuttosto che come un erogatore di servizi. Sicuramente quello che abbiamo costruito fino a questo momento non è poco: nei territori è attivo un sistema dinamico capace di offrire un ampio e variegato sistema di servizi alle comunità di riferimento. Ci teniamo a sottolineare, che oltre all’assistenza offerta quotidianamente dai Caf e i Patronati Acli, tutte nostre associazioni specifiche – in collaborazione con enti, istituti, organismi, privati o pubblici – hanno messo in campo numerosi e variegati servizi volti a favorire la promozione e l’orientamento sociale: le banche del tempo, gli sportelli per la tutela dei cittadini consumatori e la promozione del consumerismo critico, l’assistenza sanitaria, i progetti di cooperazione e tutte iniziative volte alla promozione della pratica sportiva, della qualità della vita degli anziani e dei pensionati, del turismo sociale, solo per ricordarne alcune. Ma ci teniamo anche a sottolineare che continueremo ad rispondere ai bisogni sociali, cercando d’intercettare un numero sempre elevato di persone che potrebbero potenzialmente riconoscersi nella proposta delle Acli. Anche i servizi e le imprese sociali, infatti, in quanto importante occasione di contatto con i cittadini, rappresentano un prezioso veicolo di trasmissione della nostra proposta.